Inverno 1918. I fucili ed i cannoni tacciono; sulle giogaie del Carso, nelle vette Dolomitiche, sugli scintillanti ghiacciai dell'Adamello e dell'Ortles la natura ricopre le ferite tentando una lunga ed incompleta cicatrizzazione. L'Isonzo ed il Piave lavano tutto il sangue che ha arrossato il loro alveo. Una candida neve copre gli orrori appena terminati.

Non così nel cuore di coloro che tali orrori hanno vissuto. Ferite e lutti sono ancora troppo recenti. Tante madri aspettano invano, tante mogli, tanti bambini! Non hanno nemmeno una tomba su cui piangere. Gli Ignoti sono la grande maggioranza dei Caduti, il simbolo del sacrificio. Il generale italiano Giulio Douhet propose che venissero resi i più alti onori alla salma di un combattente caduto in guerra e non identificato.

La legge venne approvata, il Ministero della Guerra nominò una commissione incaricata di portarsi su quelle che erano state le zone di operazioni belliche, a raccogliere undici salme di Caduti che non fossero in alcun modo identificabili; fra questi ne sarebbe stata designata una, che avrebbe trovato definitiva tumulazione al Vittoriano in Roma; tale monumento avrebbe quindi avuto una nuova riconsacrazione e sarebbe davvero diventato “l’Altare della Patria”.

Lungo i 650 chilometri del fronte sono sparsi piccoli e grandi cimiteri; tanti miseri corpi sono ancora insepolti a monito e ricordo. Seimila soldati e duecento ufficiali e cappellani militari si misero alla ricerca dei resti dei soldati caduti e rimasti insepolti, o malsepolti.

Sui luoghi, teatro di quella tragedia sono ancora vanghette, elmetti, gomitoli di reticolati, fucili dalla canna contorta o dal calcio spezzato. E Caduti! I seimila soldati erano scesi, con l'inseparabile amico mulo, dalle mulattiere e dai sentieri della montagna, con il triste fardello, avvolto nei teli, i resti dei miseri corpi trovati sulle cengie, nei valloni, negli anfratti.

La gente di montagna aveva preso spontaneamente in perenne consegna questi Cimiteri e li accudiva con amore e sacra gelosia.

La commissione iniziò la sua opera: dallo Stelvio al Mar Adriatico, passando da Rovereto, Dolomiti, Altipiani, Grappa, Montello, Basso Piave, Cadore, Gorizia, Basso Isonzo, San Michele; e da Castagnevizza fino al mare, affinché fra le salme potessero avere rappresentanza anche i Caduti dei reparti da sbarco della Marina.

Alla designazione delle salme venne prescelta una commissione costituita da un generale e un colonnello, da un tenente mutilato e da un sergente decorati di medaglia d’oro, da un caporal maggiore e da un soldato semplice decorati di medaglia d’argento, affinché tutto l’esercito nei suoi vari gradi e nelle sue qualifiche fosse rappresentato.

Non doveva essere presente alcunchè potesse significare un seuppur minimo segno di riconoscimento: solo i simboli di soldato italiano. Trasferendosi lungo tutto l’arco del fronte, la commissione si portò infine alla zona del Carso e del fiume Timavo ove ultima salma, quella di un soldato che presentava le gambe spezzate ed il capo perforato da proiettili di fucile, costituiva l’estremo simbolo del martirio. Quest’ultima salma venne anch’essa rinchiusa in una cassa di legno identica alle altre dieci che rinserravano le spoglie già raccolte: ormai nessuno, con alcun mezzo, avrebbe più potuto distinguere un caduto dall’altro: eguali e sconosciuti per l’eternità dinanzi agli uomini, i più umili fra i martiri vittime della guerra.

I mezzi militari con le undici bare confluirono a Udine. Si constatò allora quanto tale impresa fosse stata recepita dalla popolazione. Dietro gli affusti di cannone sui quali vennero trasportate le bare avvolte nel tricolore, s'ingrandì sempre più il mesto corteo di donne, uomini e bambini che l'accompagnavano.

Da quell’ora, dovunque le salme passarono, la commozione dilagò e straripò fino a creare un unico sentimento che legava in un vincolo profondo la coscienza delle folle inginocchiate.

Da Udine le salme, coperte di bandiere e di fiori, circondate da una ringhiera costituita da vecchi moschetti raccolti nelle trincee, sostenuti ed intervallati da lucenti bossoli di granate trasformati in portafiori furono trasportate a Gorizia, nella chiesa di Sant’Ignazio. Dinanzi a queste bare più di ventimila cittadini sfilarono giorno e notte per otto giorni.

A guardia d’onore si succedevano i fanti e rappresentanze di tutti gli altri reparti combattenti.

Il dolore, l'amor patrio superò anche le divisioni politiche.

Il 26 ottobre il corteo mosse dalla chiesa di Sant’ Ignazio, e, sfilando al cospetto del San Michele e del Sabotino, si avviò verso Aquileia. accompagnato da salve di cannone.

Ovunque strazianti scene di dolore materno e composta partecipazione  di coloro che, forse solo allora, comprendevano l'immenso dono di essere sopravvissuti.

Pianti, eloquenti silenzi, canti salutavano Lui che passava, il protagonista della vittoria, il Soldato Ignoto.

Mille voci di fanciulli delle scuole elementari accolsero ad Aquileia il corteo, intonando con fierezza la Canzone del Piave. La prima bara viene viene trasportata da alcune  madri di caduti: seguono le altre  bare portate in spalla da combattenti e mutilati. Su ogni feretro, la bandiera tricolore e un elmetto cinto di alloro.

Un mazzo di undici crisantemi è stato posto davanti al catafalco centrale. Sono stati inviati da una bambina di sei anni, Ines Meneguzzo, di Bassano, una bimba che non ricorda il papà, partito per la guerra quando essa era troppo piccina. Ha inviato i fiori con un biglietto, scrivendo: “Chissà che questi fiori vadano al mio papà, che morì e non fu ritrovato”.

Dopo la benedizione del vescovo di Trieste con l’acqua del Timavoè l’ora della scelta. Fra le tante madri, è stata scelta Maria Bergamas, una popolana triestina che ha perduto il figlio Antonio: irredento, questi aveva disertato dall’esercito austriaco e si era arruolato nelle file italiane cadendo poi in combattimento, senza che il suo corpo fosse più stato identificato.

Un silenzio carico di emozioni diverse: Maria Bergamas si solleva, lentamente, guarda le bare, si porta verso il lato destro e quindi procede in avanti, quasi avesse deciso di voler dapprima passare dinanzi ad ognuna, ad interrogarle in silenzio, a salutare i figli che contengono. Ma improvvisamente  la donna cade in ginocchio davanti alla seconda bara. Capisce che irrisorie sono le possibilità che in una di esse sia veramente Antonio, ma sa anche, che ciò è meno importante. La dentro c'è "un figlio" e lei è la madre delle madri italiane. Lui dovrà per sempre rappresentare tutti i figli d'Italia ma molto più importante sarà il ricordo. la dimenticanza sarà ucciderli per la seconda volta! Il suo braccio si leva a testimonianza e invocazione alto sul legno, le mani si posano sul coperchio e depone un velo nero, accenna un segno di croce. Ecco, è segnato: questo sarà il Soldato Ignoto.

Ora la salma del Milite Ignoto viene rinchiusa in una seconda cassa di zinco, e in una terza di quercia. I simboli la ricoprono: una bandiera, un elmetto, un fucile. Su un affusto di cannone  è trasportato ad un vagone ferroviario, che ornato di fiori che, sulla linea Aquileia - Venezia - Bologna - Firenze  muove sulla via di Roma.

I dieci compagni ignoti torneranno nella terra del cimitero di Aquileia, presso la statua del Cristo che distoglie una mano dalla croce per carezzare il Soldato ferito. Accanto a loro, alla sua morte, giacerà anche Maria Bergamas, riunita al suo ed a tutti gli altri giovani eroi.

Da Aquileia, a Udine a Treviso e a Venezia. Aeroplani dell’aviazione militare precorrono in cielo l’arrivo del treno. Il lento incedere del convoglio è ovunque salutato: nelle campagne come nelle città. Traversando il ponte della Priula, dai vagoni del treno vennero gettate sulle acque del Piave corone di fiori.

Il rispetto per la morte accettata per senso del dovere, per amor di patria, superò gli orientamenti e le fazioni politiche. Stracciando simbolicamente l'inito di alcune fazioni politiche a "disinteressarsi" di questo immane evento,  il sindaco socialista di Pordenone, Guido Rosso, affermò: “Il Soldato Ignoto rappresenta un dovere voluto od accettato, e adempiuto con perfetta coscienza di umiltà. Superiore ai partiti, alle fazioni e alle passioni per la propria virtù che lo sublima, deve da tutti, che nel sacrificio ravvisano una fonte di umano progresso, avere profonda reverenza e profondo ossequio. Inchiniamoci”.

A Venezia innumerevoli barche si portarono in mare aperto e sparsero fiori e corone sul mare affinché, in questo rito, fossero ricordati i marinai e gli aviatori che in mare si erano inabissati.

Il treno, guidato da ferrovieri tutti decorati al valor militare, raggiunse Mestre e Padova. Si inginocchiarono gli uomini e le donne, i militari e i civili, i sacerdoti e i laici, i nazionalisti e coloro che portavano all’occhiello il distintivo con la falce e il martello. Presso Padova gli aviatori di un campo di aviazione a ridosso della linea ferroviaria schierarono i loro apparecchi, così come a Stanghella una teoria di tripodi bruciava incenso lungo la scarpata della ferrovia.

Più volte il convoglio è fermato nelle campagne da stuoli di gente commossa che si unisce nel dolore e nella commemorazione.

A Casalecchio sul Reno il comitato delle onoranze era presieduto dal sindaco Sandro Vito, e la giunta comunale era stata portata al potere da voti comunisti; la circolare del partito che intimava il divieto di prendere parte alle onoranze giunse quando il sindaco si era già impegnato, e l’uomo non ebbe dubbi, anch’egli era presente e inginocchiato al passaggio del treno: il Milite Ignoto stava già vincendo, di città in città, di regione in regione l’ultima sua battaglia portando alla concordia l’animo di tutti gli italiani. A Firenze, per quattro ore la popolazione, con alla testa i generali Cadorna e Pecori Girardi, sfilò davanti al treno in sosta. Ad Arezzo, dove gli orfani di guerra furono i primi a deporre i fiori sulla bara, il treno rimase per l’intera notte. 

Il 1° novembre, il treno entra lentamente nella stazione Termini a Roma; ad attenderlo il Re, la famiglia reale e le più alte autorità dello Stato. Dodici decorati di medaglia d’oro trasportano la salma all’esterno della stazione, la depongono su un affusto di cannone. La salma viene collocata nell’interno del tempio di Santa Maria degli Angeli è breve, la gente fa ressa sulla strada, alle finestre, sui tetti delle case.

 

“Ignoto il nome

folgora il suo spirito

dovunque è l’Italia

con voce di pianto e d’orgoglio

dicono

innumeri madri

è mio figlio”.

É il 4 novembre 1921: al Vittoriano, sotto la statua della dea Roma è aperto il loculo che attende il Milite. Si calcola che più di trecentomila persone siano accorse per quel giorno da ogni parte d’Italia, e che più di un milione di italiani facciano massa sulle strade di Roma. Il corteo avanza lungo Via Nazionale; vi sono rappresentati i soldati di tutte le armi e di tutti i servizi dell’esercito. Dinanzi al gran monumento, in piazza Venezia, carabinieri fanti marinai sono schierati in quadrato, mentre 335 bandiere dei reggimenti attendono il Soldato.

Il corteo con la bara sull’affusto potrebbe attende le dieci precise, l’ora in cui tutta Italia sa e attende. E infatti, alla dieci, campane vicine, poi lontane, prima di tutta Roma, poi di tutta Italia suonano a stormo a salutare il Soldato che ascende i gradini. Il rombo dei cannoni da Monte Mario e dal Gianicolo frattanto evoca una realtà tragica che nel cuore dei superstiti resterà a ricordo per tutta la vita. 

Ma ora la salma e dinanzi al loculo spalancato: tutti vedono che è ombra e silenzio. Il Re bacia la medaglia d’oro, che viene fissata sul feretro con un martello d’oro.

Ora un soldato semplice pone sulla bara l’elmetto del fante. I militari presenti e i rappresentanti delle nazioni straniere sono sull’attenti, tutto il popolo è in ginocchio, la bara è ora nel loculo, il Soldato Ignoto è finalmente sul suo altare, ha portato con sé qualcosa di altri seicentocinquantamila invisibili.

Un Figlio d'Italia riposa nella Capitale. É il simbolo del sacrificio del popolo italiano, della sua acquistata unità. Monito perenne, messaggio di pace.

Onoriamolo!

 

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