È indubbio motivo di orgoglio per gli Alpini sapere che un loro Ufficiale ha in corso la causa di Beatificazione.

Parliamo di Teresio Olivelli, Ufficiale del 3º Reggimento Artiglieria Alpina della Divisione "Julia", decorato di M. O. V. M: soldato, partigiano, martire della carità.

Nato a Bellagio (CO) nel 1916, Teresio Olivelli si laurea nel novembre 1938 e diviene Assistente della Cattedra di Diritto Amministrativo dell’Università di Torino.

Di radicati sentimenti religiosi, aderisce all'Azione Cattolica ed alla F.U.C.I., per promuovere ed avvalorare i valori evangelici nei diversi ambienti sociali, specialmente del mondo universitario; a tale fine non paventa di affiancarsi e confrontarsi con l’unica espressione politica consentita, il fascismo, ma, quando, nel 1931, l’Azione Cattolica vide aggredite e devastate le sedi, il giovane Teresio non esitò ad affermare: “O Mussolini cambia rotta o la cambiamo noi!.

Il suo vivace temperamento di credente si deduce dalle sue parole: La gioventù o è eroica o è miserabile. L’uomo all’idea non può dare mezze misure di sé stesso, dà tutto. Quando poi Cristo è l’Ideale che ci sospinge, credo che il dovere si attui nell’amore totalitario a Lui e debba essere consumato sino all’ultima stilla. O la fede è vissuta come conquista oppure è anemia di invertebrati. .... L’avvenire non appartiene ai molli. La vita è perfetta quando è perfetto amore”.

Allo scoppio della guerra, nel 1940, come Ufficiale degli Alpini: chiede di partire volontario nella Campagna di Russia per stare accanto ai giovani militari e condividerne la sorte. Inquadrato nella 31a Batteria del Gruppo Bergamo della Tridentina, condivise, senza privilegi per il grado, i pericoli e le sofferenze dei suoi soldatia; faceva il Capo servendo, fu un fratello maggiore più che un Superiore di grado. Durante la tragica ritirata, concretizza i principi di carità che prova, fermandosi ripetutamente, a soccorrere eroicamente i feriti, con gravissimo rischio: rimasto separato dal suo Reparto, che viene catturato, si unisce ad una gruppo di soldati che, con le slitte, trasportavano i feriti che difende da tedeschi e partigiani russi. Per 600 Km. è conforto per i malati, sprone per i conducenti, animatore di speranza.

Superata Nikolajevka,  gli viene ordinato da condurre i muli sino alle retrovie, percorrendo altre centinaia di chilometri  a piedi.

L’armistizio dell’8 settembre lo trova sotto le armi a Vipiteno; il 9 settembre è catturato con l’intera Batteria e rinchiuso in un campo di prigionia a Innsbruck. Tenta la fug, prima da Hall, la seconda volta da Regensburg e solo al terzo tentativo, dal campo di Markt Pongau, rientra in Patria, a Pontebba (Ud), percorrendo a piedi circa 400 Km. Aderisce alla Resistenza in modo personale: non secondo criteri ideologici o di partito, ma unicamente secondo i principi della fede e della carità cristiana, fedele al suo motto non esistono liberatori, ma solo uomini che si liberano.

Coniuga, nel suo operato, la partecipazione alla lotta di liberazione della Patria, con la testimonianza viva del Vangelo in tutte le espressioni della carità per l’uomo.

Fonda il Foglio clandestino “Il Ribelle”, in cui chiarisce, con coraggio, il suo concetto di resistenza: ribellione morale alla passiva sottomissione per l’esaltazione della dignità umana, della libertà, dei diritti irrinunciabili degli uomini.

« Ribelli, così ci chiamano, così siamo, così vogliamo essere, ma la nostra è anzitutto una rivolta morale. È rivolta contro un sistema e un'epoca, contro un modo di pensiero e di vita, contro una concezione dell'esistenza. Non vi sono liberatori, ci sono solo uomini che si liberano».

Resistenza ai soprusi per un futuro di libertà. Sentimenti espressi nella famosa preghiera “Signore facci liberi…”, considerata la più alta testimonianza spirituale di tutta la resistenza e conosciuta anche come “Preghiera del ribelle”, come venivano apostrofati i partigiani, che Lui definisce: “ribelli per amore”.

Ma il suo insegnamento è considerato attività cospirativa e per questo viene l’arresto a Milano nell’aprile 1944. Deportato nei campi di concentramento in Italia, poi in Germania diventa per lui coraggioso stile di vita difendere i compagni maltrattati, offrire la sua razione di cibo ai più deboli ed ai malati anche se gravemente deperito. Atteggiamenti, come è facile intuire non tollerati dai suoi Aguzzini che si accaniscono contro la Sua figura ormai emaciata.

Mentre fa scudo, con il proprio corpo, ad un giovane prigioniero ucraino brutalmente pestato è colpito con un violento calcio al ventre, in conseguenza del quale muore il 17 gennaio 1945.

Alla Sua memoria viene decretata la Medaglia d’Oro con la seguente motivazione:

 

«Ufficiale di complemento già distintosi al Fronte Russo, evadeva arditamente da un Campo di Concentramento dove i tedeschi lo avevano ristretto dopo l’armistizio, perché mantenutosi fedele. Nell’organizzazione partigiana lombarda si faceva vivamente apprezzare per illimitata dedizione ed indomito coraggio dimostrati nelle più difficili e pericolose circostanze. Rendeva eminenti servizi anche nel campo informativo ed in quello della propaganda. Tratto in arresto a Milano e barbaramente interrogato dai tedeschi, manteneva fra le torture esemplare contegno nulla rivelando. Internato a Fossoli tentava la fuga. Veniva, così, trasferito prima a Dachau poi a Herzbruk. Dopo lunghi mesi di inaudite sofferenze trovava ancora, nella sua generosità, la forza di slanciarsi in difesa di un compagno di prigionia bestialmente percosso da un aguzzino. Gli faceva scudo del proprio corpo e moriva sotto i colpi. Nobile esempio di fedeltà, di umanità, di dedizione alla Patria.

Lombardia - Venezia Tridentina - Germania, settembre 1943 - primi giorni del mese di marzo 1945».